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“La forza nasce dal tuo obiettivo” – INTERVISTA A MAURIZIA CACCIATORI

“La forza nasce dal tuo obiettivo” – INTERVISTA A MAURIZIA CACCIATORI

E’ uscito in questi mesi il libro “Senza rete” (Edizioni Roi), l’autobiografia di Maurizia Cacciatori, una delle giocatrici pallavolo più vincenti e famose che l’Italia abbia mai avuto (17 titoli vinti in carriera). L’abbiamo raggiunta a telefono per un’intervista.


Che ragazza era Maurizia prima di incontrare la pallavolo?

Era una ragazzina molto dinamica. Mi piaceva fare sport, correre, essere sempre in movimento e socializzare. Ero vivace, curiosa e anche molto coraggiosa. Alle elementari la mia maestra diceva che ero “l’avvocata della cause perse” perché prendevo sempre le difese di tante compagne e compagni di classe. Ero quella che gli spagnoli chiamano “valiente”, una coraggiosa.


Cosa rappresentava la pallavolo per quella giovane Maurizia?

La pallavolo per me rappresentava tutto quello che cercavo: fare squadra, collaborare, mettersi in gioco, avere degli obiettivi. All’inizio gli obiettivi erano le partite di mini volley però erano i miei obiettivi da condividere con le mie compagne. Poi la pallavolo per me significava avere un allenatore che mi desse l’opportunità di crescere e di migliorare. Inoltre mi permetteva di viaggiare, di girare l’Italia per fare le partite e vedere tante città. Quindi per me la pallavolo rappresentava tanti valori, non era solo il fatto di palleggiare e schiacciare.


Quando è che è nata l’ambizione? C’è stato un momento in cui hai capito di poter puntare in alto?

Ero consapevole che lo sport era la mia strada e che mi avrebbe portata lontano ma non sapevo fino a dove. Di sicuro sapevo che mi piaceva giocare e che volevo giocare con squadre sempre più forti: questa consapevolezza era già un’ottima spinta per essere sempre più ambiziosa. Facevo tutto con grande impegno e questo portava frutti: da un club di serie A2 quando avevo 15 anni, a un club di A1 a 16 anni, poi la nazionale. Però non mi sono mai data troppa pressione: riconosco di aver sempre fatto un passo dopo l’altro con grande maturità.


Nel libro scrivi che l’incontro con il procuratore Mauro Reguzzoni segna una svolta…

Sicuramente, quando è arrivato Reguzzoni mi ha fatto sognare in grande. Io quel momento non avevo ancora un sogno legato a una carriera di alto livello nella pallavolo perché ero davvero molto giovane e pensavo che il mio mondo sarebbe rimasto più o meno quello. Ma il fatto che quando hai appena 15 anni arriva qualcuno e ti dice “poi arrivare davvero lontano” ti fa sentire molto orgogliosa: è stata una grande spinta a crederci ancora di più, a non mollare.


In seguito hai maturato un sogno, un risultato da raggiungere?

Certo: andare alle Olimpiadi. Fin da piccola guardavo le Olimpiadi in TV con grande curiosità: seguivo tutti gli sport e quello che mi piaceva era vedere gli occhi degli atleti. Per me guardare le Olimpiadi in TV era come guardare il pianeta Marte: era qualcosa di bellissimo e irraggiungibile quindi nel mio cuore il più grande sogno era giocare un’Olimpiade e non vederla più in TV: e così è stato!


Quali sono state le qualità psicologiche determinanti per i tuoi successi?

La più importante è stata la resilienza [cioè la capacità di resistere allo stress e di reagire agli eventi critici in modo positivo, ndr]. Non nascondo che ho attraversato momenti difficili in cui mi veniva da dire da dire “no, basta, non ho più voglia, chi me lo fa fare, mollo tutto”, ed è una cosa normale. Però sarebbe stato troppo facile abbandonare nelle difficoltà quindi anche nei momenti più duri ho sempre deciso di restare, per senso di appartenenza e responsabilità verso la squadra. Poi per me è stato importante anche essere in grado di voltar pagina a livello emotivo e mentale, diciamo così. Perché nello sport un giorno vinci e un giorno perdi quindi devi saper dare il giusto valore sia alla vittoria che alla sconfitta e prepararti alla prossima sfida.


Nel tuo libro racconti del tuo impegno e dei sacrifici per adattarti ai vari allenatori: dove hai trovato la forza?

Credo che la forza nasca dal tuo obiettivo, da quel che vuoi fare e da chi ti proponi di essere. Quando scendevo in campo quella maglia era la mia maglia e dovevo difenderla al di là di qualunque circostanza: in ogni caso l’obiettivo era vincere con la squadra. Non ho avuto sempre allenatori con cui mi trovavo alla perfezione, del resto è una cosa che capita in ogni ambito: io oggi lavoro in ambito aziendale e può succedere di avere dei colleghi o un capo con cui non ti sposi alla perfezione. Quando giocavo gli obiettivi erano forti: vincere, migliorare, portare casa il risultato, per me l’importante era questo. Se poi in un certo periodo, o in una stagione l’allenatore non era come lo volevo, io sapevo che dovevo fare quel percorso ugualmente, quindi ero sempre pronta ad adattarmi e secondo me questa è una cosa fondamentale nello sport come nella vita. Se vuoi raggiungere un obiettivo, puoi raggiungerlo solo collaborando con la tua squadra, al di là del fatto che con i singoli elementi a livello caratteriale puoi trovarti bene o meno.


Secondo te cos’è che trasforma un gruppo in una squadra?

Anzitutto la capacità di allenare l’empatia, la capacità di comprendere le persone con cui stiamo facendo un certo percorso. Ognuno di noi ha una storia, una cultura, spesso viene da paesi molto diversi dal nostro, quindi ha mentalità totalmente diverse. Il team vincente si differenzia dal gruppo quando riesce a pensare in modo plurale e non singolare. E poi per fare squadra è fondamentale anche la capacità di condividere un obiettivo veramente, non per finta! Perché ho avuto anche squadre fortissime che però avevano all’interno delle persone che lavoravano in modo quasi meccanico, senza un vero coinvolgimento. Ecco, c’è una grossa differenza tra lavorare così e lavorare con grinta per raggiungere un obiettivo con le compagne al tuo fianco.


Hai mai ricorso al mental training?

Le tecniche di preparazione mentale ho dovuto svilupparle sul campo, da autodidatta (ride). Non ho mai collaborato con uno psicologo dello sport ma di sicuro la pallavolo è mentale all’80%: ho visto atleti fortissimi che non erano capaci di gestire la pressione, di ascoltare i consigli nei momenti più delicati o di adattarsi alla vita di comunità con la squadra… tutte queste sono competenze psicologiche e relazionali. Se non le hai è difficile che tu possa diventare un campione: puoi schiacciare fortissimo ma se poi perdi una partita e mentalmente non sei in grado di ripartire o di metterti a disposizione del gruppo non vai molto lontano. Puoi fare un paio di anni ma la verità prima o poi viene a galla.


…ed è qui che intervengono gli psicologi dello sport…

E certo!


Quali sono le qualità più importanti per un allenatore?

Secondo me sono due. Anzitutto un allenatore deve essere un buon leader e per essere un buon leader deve essere principalmente se stesso. Ho sentito tantissime teorie su come diventare grandi leader ma credo che bisogna essere autentici perché quando ci si mette una maschera, quando si scopiazzano gli atteggiamenti di altri, la squadra lo avverte e non c’è cosa peggiore. In secondo luogo un buon allenatore deve avere la capacità di trasmettere il suo spirito ai giocatori ma allo stesso tempo facendo in modo che siano loro i protagonisti, perché non c’è soddisfazione più grande di vedere una squadra che ragiona con la propria testa ma attraverso i messaggi e l’anima del proprio allenatore.


Secondo te, qual è la cosa più importante che un ragazzo o una ragazza possono imparare dalla pallavolo?

Sicuramente il mettersi in gioco. E poi anche la capacità di fare gioco di squadra. La pallavolo ti spinge ad adattarti, a cambiare te stessa per favorire gli obiettivi del gruppo, quindi accetti di fare panchina, ti impegni per essere un esempio per le nuove arrivate, supporti il gruppo quando ne ha bisogno… Tutte queste dinamiche io le ho imparate con la pallavolo: erano quotidiane lezioni di “team management” all’ennesima potenza perché ogni giorno c’era una novità, un avversario nuovo, un obiettivo nuovo, una strategia nuova da imparare. Secondo me questo è davvero uno sport straordinario.


Oggi ti occupi di comunicazione e formazione aziendale: secondo te cosa hanno in comune lo sport e l’impresa?

Quando faccio le convention, e ne faccio tante, vedo che le dinamiche e le necessità delle aziende sono le stesse che avevamo noi in nazionale quindi posso dire che c’è un parallelismo ottimo, quasi identico: forse l’unica differenza sta nel fatto che nella pallavolo gli obiettivi si susseguono a un ritmo più serrato perché le partite sono più di una a settimana, ma in fondo anche in azienda non è molto diverso. E’ un parallelismo fantastico perché un’azienda funziona bene quando è organizzata come un team, cioè quando i singoli elementi collaborano, hanno empatia, hanno la volontà di crescere e costruire qualcosa insieme, lavorando ognuno col proprio impegno ma coordinati come una squadra finalizzata a progetto vincente.


Come hai gestito la fase del fine carriera?

Fin dall’inizio ero consapevole che lo sport sarebbe stato una parentesi nella mia vita. Sapevo che avrei smesso e avevo chiara l’idea di rimettermi in gioco, di reinventarmi con gli strumenti che avevo ricevuto dallo sport ma applicandoli in altri ambiti. Infatti oggi sono nel settore della comunicazione che non è poi cosi lontano dal mio “vecchio” mondo perché anche quando andavo in conferenza stampa dovevo spiegare perché avevamo vinto e perché avevamo perso e dovevo farlo nel modo migliore.



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